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Desiderio, attaccamento e avversione

Desiderio, attaccamento e avversione

In un testo di Lama Tzong Khapa, l’attaccamento – o il desiderio – viene descritto come una macchia d’olio su un tessuto. Quando l’olio cade su un tessuto, non si ferma mai al primo punto: si espande gradualmente, sempre di più, fino a diventare quasi impossibile da rimuovere. Allo stesso modo, l’attaccamento è una tendenza che, una volta comparsa, tende a diffondersi nella nostra mente e nelle nostre azioni. Attaccamento significa aggrapparsi a qualcosa su cui proiettiamo la nostra felicità. Crediamo che stare con quell’oggetto, con quella persona, con quella situazione, ci farà star bene, ci permetterà di evitare la sofferenza. Non vogliamo assolutamente lasciare andare quella cosa, perché la riteniamo essenziale per il nostro benessere. Il desiderio, invece, si manifesta quando proiettiamo la nostra felicità su qualcosa che non abbiamo ancora. È l’idea “starò bene quando otterrò quella cosa, quando riuscirò a fare questo o quello”. Anche in questo caso, stiamo legando la nostra felicità a un oggetto esterno. Avrete probabilmente già sentito dire che attaccamento e desiderio sono tra le principali cause della sofferenza e dei nostri conflitti interiori. Ma, dal mio punto di vista, il problema non è tanto l’attitudine in sé – quella di aggrapparsi o di desiderare – quanto l’oggetto su cui queste attitudini si proiettano. Se ci aggrappiamo a qualcosa convinti che ci renderà felici, ma quella cosa in realtà non ha la capacità di sostenere la nostra felicità, finiremo inevitabilmente per soffrire. Se proiettiamo la nostra felicità su qualcosa che non è in grado di mantenerla, alla fine vivremo frustrazione, delusione e dolore.

Il problema non è tanto il fatto di desiderare, ma su cosa appoggiamo quel desiderio.

In tibetano esiste una parola unica, che racchiude entrambi i concetti di desiderio e attaccamento. In effetti, l’attitudine di fondo è molto simile; ciò che cambia è la direzione: nel caso dell’attaccamento, ci riferiamo a qualcosa che abbiamo e che non vogliamo perdere; nel caso del desiderio, a qualcosa che non abbiamo ma che vogliamo ottenere.

Abbiamo attaccamenti e desideri di ogni tipo: verso i piaceri sensoriali, verso la ricchezza, il potere, l’immagine che gli altri hanno di noi. Sono tutte forze potenti, molto presenti nella nostra vita. Se osserviamo con attenzione, ci accorgiamo che molte delle nostre azioni quotidiane sono mosse da queste forze, che ci spingono, ci orientano, ci condizionano profondamente. Non sono solo concetti astratti, ma energie reali che operano dentro di noi, spesso al di sotto della soglia della nostra consapevolezza e spesso le nostre scelte, le nostre emozioni, le nostre azioni sono mosse proprio da questi due motori fondamentali: l’attaccamento e il desiderio.

E fra tutti i desideri e gli attaccamenti, ce n’è uno che, a mio avviso, è ancora più forte. Ed è anche una sorta di “fregatura”, proprio perché è più sottile e pervasivo: l’attaccamento alla realtà così come secondo noi dovrebbe essere.

Noi, inevitabilmente, generiamo un’immagine di come, secondo noi, ogni cosa dovrebbe essere. Conosciamo una persona, e nella nostra mente si forma un’idea di come quella persona dovrebbe comportarsi, pensare, reagire. Più passa il tempo, più questa immagine si solidifica. A volte arriviamo addirittura a credere di essere in diritto di imporre all’altro il modo in cui dovrebbe essere, proprio perché “lo conosciamo bene”. Questo accade tra genitori e figli, tra partner, tra amici. È molto comune. Proiettiamo aspettative sull’altro, e quando l’altro corrisponde a quella nostra proiezione, siamo felici. Ma quando non lo fa, soffriamo.

Anche con la nostra giornata facciamo lo stesso: oggi è lunedì, immaginiamo già come dovrebbe andare la settimana. Pensiamo a chi incontreremo, cosa faremo, cosa accadrà. Creiamo un’immagine mentale del futuro, una sequenza ideale degli eventi.

Il problema è che la nostra capacità di prevedere la realtà è molto limitata. Le variabili in gioco sono infinite, tutto è in costante movimento, e noi non abbiamo gli strumenti per cogliere la complessità del reale. Tuttavia, nonostante ciò, rimaniamo aggrappati alla nostra immagine di come le cose dovrebbero essere. E quando la realtà non corrisponde a questa immagine, non riusciamo più a goderci il momento presente, non ci apriamo ad altre possibilità. Restiamo bloccati nel pensiero: “Ma non doveva andare così…Perché è successo in questo modo?…Mi aspettavo qualcosa di diverso… eccetera”

Ma la domanda che io mi pongo è: per quale motivo ciò che io immagino dovrebbe determinare ciò che è reale? Chi ha questo potere? Io certamente no. E non so se qualcuno lo abbia.

Pensiamo spesso: “Tu non dovresti essere così”, oppure “ l’altro non dovrebbe comportarsi in quel modo”. Ma chi siamo noi per decidere cosa gli altri dovrebbero o non dovrebbero essere? Al limite, posso forse dire: “Secondo la mia visione, sarebbe meglio per te se ti comportassi in un certo modo.” Ma non spetta a me quella scelta. E, ancor meno, non ho il potere di controllare come tutto debba andare.

Questo attaccamento è molto profondo perché si manifesta su tantissimi livelli: l’immagine idealizzata di noi stessi, quella sul nostro lavoro, sulla famiglia, sulle persone che ci circondano, sull’ambiente in cui viviamo…

A volte soffriamo perfino perché ci aspettavamo il sole e invece c’è la pioggia. Ma il problema, spesso, non è né il sole né la pioggia, ma il fatto che la realtà non corrisponde a ciò che avevamo immaginato.

Da un certo punto di vista, questo è anche incoraggiante: ci mostra che la sofferenza, in molti casi, nasce da una nostra proiezione, da un’illusione. Ci aggrappiamo a qualcosa che non esiste davvero.

Tuttavia, lasciar andare non è semplice. La vera sfida è trovare un equilibrio tra avere una direzione – sapere dove vogliamo andare, dare un senso alla nostra azione – e allo stesso tempo non attaccarci al risultato, non restare bloccati nell’idea fissa di come le cose “dovrebbero” andare.

In altre parole, imparare a vivere senza attaccamento alle aspettative.

Mare, vento e vele. @ Artromapiter

Personalmente, vedo questa dinamica dell’attaccamento attraverso la metafora del veleggiare. Immaginiamo di trovarci in un porto, con un obiettivo ben chiaro: vogliamo raggiungere un’altra riva, una meta, anche distante. Abbiamo una direzione verso cui vogliamo andare. Sappiamo che per arrivare là dobbiamo seguire una certa rotta, ma non abbiamo il controllo sui venti, né sulle correnti. Possiamo solo adattarci alle condizioni che incontriamo lungo il cammino. Il punto è proprio questo: non essere attaccati al “come” deve avvenire il percorso. Possiamo farci un’idea generale, certo, ma poi ogni volta dobbiamo confrontarci con la realtà del momento. Può esserci vento favorevole, o magari nessun vento, e allora dobbiamo fermarci, attendere. Magari il vento soffia da nord invece che da sud. A quel punto non serve lamentarsi, non serve dire “Ma non doveva essere così!”, perché così è. Quando riusciamo a non essere attaccati alla nostra idea di come le cose dovrebbero andare, ci apriamo a nuove possibilità, a opportunità che altrimenti non avremmo nemmeno visto. Perché ogni situazione, ogni istante, è ricco di alternative. Ma più la nostra immagine mentale è rigida, più ci chiudiamo a tutto il resto. La chiave, quindi, è questa: avere chiarezza sulla direzione in cui vogliamo andare, senza però restare intrappolati in un’idea fissa del percorso. Senza pretendere che le cose vadano esattamente come avevamo immaginato.

Lo stesso vale anche nei rapporti umani. Ci relazioniamo con le persone nel modo migliore possibile, secondo le nostre capacità, ma senza restare aggrappati all’idea di come l’altro dovrebbe essere o comportarsi. Piuttosto ogni volta che ci troviamo in una situazione, chiediamoci quale è il miglior modo in cui io posso relazionarmi a questo momento, a questa persona, a questa realtà.

Un altro aspetto importante da tenere presente è che più forte è l’attaccamento, più forte sarà anche l’avversione.
Perché cosa accade quando le cose non vanno come secondo noi dovrebbero andare? Restiamo in pace o iniziamo a cercare un colpevole? Spesso, nasce un senso di frustrazione, e poi la rabbia. È un meccanismo comune. Ma questo atteggiamento non ci fa bene. Quando ci attacchiamo troppo a come la vita dovrebbe essere, rischiamo di rimanere intrappolati in una realtà che non c’è, in qualcosa che esiste solo nella nostra mente. Viviamo costantemente in una proiezione, anziché nella realtà viva del presente. Ci sentiamo vittime, frustrati, e perdiamo il contatto con ciò che è davvero possibile.

L’avversione, la rabbia, il rancore – che siano espressi in modo diretto o indiretto, passivo o attivo, verbale o fisico – fanno male prima di tutto a noi stessi. Ci danneggiano emotivamente, mentalmente e perfino fisicamente. E compromettono anche le nostre relazioni: nessuno si sente bene vicino a una persona che emana aggressività. E se osserviamo con attenzione, vedremo che la rabbia spesso nasce non tanto da ciò che è, ma da ciò che pensavamo dovesse essere. Iniziamo a pensare “Questo non doveva succedere… non doveva andare così… non mi aspettavo questo…eccettera”, e restiamo feriti, delusi. Ma non è che le cose sono andate in quel modo perché qualcuno ha deciso di farci del male. Semplicemente, non siamo riusciti a vedere la realtà nella sua interezza, nella sua complessità di cause e condizioni. Se avessimo avuto quella consapevolezza, avremmo compreso meglio ciò che stava accadendo.

L’umiltà e la capacità di adattarsi

È molto importante coltivare un’attitudine di umiltà. Non intesa come senso di inferiorità, ma come consapevolezza di non poter determinare esattamente come le cose dovrebbero andare. La vita si dispiega momento per momento e ciò che possiamo fare è adattarci al meglio delle nostre capacità e, se possibile, godercela lungo il percorso.

Ricordo un fatto accaduto anni fa, che mi ha lasciato un segno. Ero in India con il mio Maestro. A un certo punto, durante un viaggio in pullman, abbiamo avuto un incidente — e non uno lieve. Non starò qui a entrare nei dettagli, ma sostanzialmente un camioncino sovraccarico di fieno stava occupando tutta la strada. Di notte, un altro camion ha provato a sorpassarlo, ed è finito dritto contro di noi.

Io ero seduto nel primo posto del pullman. Con l’urto, ho volato contro una porticina di vetro, ho sbattuto la testa. Fortunatamente il vetro non si è rotto, ma la porta è caduta. Mi sono rialzato, mentre il mio Maestro si era fatto male e un’altra persona con lui pure. Sono stati portati via con un’auto di amici per ricevere assistenza, mentre io sono rimasto lì. Eravamo nel mezzo della campagna, lontani da ogni centro abitato. Buio totale. Scendendo dal pullman ho alzato lo sguardo e ho visto uno dei cieli più stellati e belli che avessi mai visto. Non so se era l’effetto del colpo alla testa, ma mi ha pervaso una gioia profonda, sincera. Una bellezza pura in quel momento caotico.

Ho provato a condividerlo con gli altri, dicendo: “Ma avete visto che cielo meraviglioso?”. E loro mi guardavano come se fossi impazzito: “Guarda in che situazione ci troviamo, e tu pensi alle stelle?”. Ma io pensavo: “Che altro possiamo fare? Tanto dobbiamo aspettare, non possiamo muoverci. Godiamoci almeno questo cielo!”

Perché il punto è proprio questo: quando c’è qualcosa che non ci piace, vogliamo rimanere nel dolore? Vogliamo indugiare nella sofferenza?
Spesso, la sofferenza vera e propria è molto più breve del pre-soffrire (l’ansia per ciò che potrebbe accadere) o del ri-soffrire (il rivivere ciò che è già successo). L’incidente era già avvenuto, non potevamo cambiarlo. Quello era il momento presente: dovevamo aspettare. E se mentre aspettiamo c’è un cielo così bello sopra di noi, perché non aprirci a quel momento?

Attaccamento all’immagine idealizzata

La sofferenza, spesso, nasce non dalla realtà concreta, ma dall’attaccamento a un’immagine idealizzata di come le cose dovrebbero essere. Non sto negando che esista una sofferenza reale, fisica, mentale, presente nel qui e ora. Ma molto spesso stiamo male perché ci aggrappiamo a un’idea, a un’illusione, e non a qualcosa che è effettivamente davanti a noi.

È importante avere obiettivi, sì. È importante avere desideri. Anche nel Buddhismo, una delle qualità più alte è la Bodhicitta — il desiderio di raggiungere l’illuminazione per il bene degli altri. Questo è un desiderio! Ma è un desiderio che genera felicità, non sofferenza.

E allora, vi invito a riflettere e a porvi queste domande: Quali sono i miei oggetti di desiderio? Quali sono i miei oggetti di avversione?
Sono concreti? Reali? O sono illusioni, immagini costruite nella mia mente?

Spesso abbiamo un senso di insoddisfazione o malessere diffuso, e non sapendo bene da dove viene, cerchiamo un bersaglio su cui proiettarlo. Vogliamo trovare un colpevole. Ma come possiamo capire se stiamo solo proiettando?

Un buon esercizio è questo: chiediamoci cosa viene prima. Viene prima la sensazione di ansia o malessere, o prima il pensiero del “colpevole”? Se la sensazione viene prima, e solo dopo cerchiamo chi ne è la causa, è molto probabile che stiamo inventando un colpevole. E se agiamo partendo da quella proiezione, rischiamo di creare altri conflitti, incomprensioni, ferite. Quindi, quello che possiamo fare è semplicemente questo: osservare noi stessi. Osservare con sincerità i nostri desideri, le nostre avversioni. Perché sono proprio loro a guidare le nostre azioni, a determinare le nostre scelte, e quindi la realtà che viviamo.

Ogni tanto è importante rivedere i nostri desideri e le nostre avversioni. Se vediamo che sono illusori, dobbiamo ricordarci che stiamo proiettando un film nella nostra mente, e che probabilmente le cose non andranno come ci aspettiamo. È inutile rimanere male per cose che non hanno solide basi. Per esempio, posso dire che giovedì voglio andare sulla Luna, ma quando arriva giovedì e vedo che la mia navicella non è lì, posso solo rimanere deluso, ma è chiaramente un sogno senza fondamenta reali. Oppure, magari, mercoledì dico che voglio andare a Milano in elicottero. Mi immagino tutto bello, elegante, sarebbe comodo. Poi, quando arriva il giorno e l’elicottero non è lì, rimango male. Qualcuno potrebbe dire: “Ma dai, è ovvio che non c’era l’elicottero!”, ma quello è proprio il punto. Abbiamo proiettato una visione idealizzata che non ha basi concrete.

Ecco, spesso agiamo così, ma senza rendercene conto. Proiettiamo immagini idealizzate su una persona, una situazione, un luogo, un oggetto. Più ci aggrappiamo a queste immagini, più diventa difficile adattarci alla realtà che ci circonda. Quindi, ricordiamoci sempre di questa dinamica. Mettiamo chiaramente davanti a noi il nostro obiettivo, che deve essere realizzabile, tangibile. Ad esempio, uno degli obiettivi più nobili potrebbe essere quello di essere in pace con noi stessi, di cercare un maggiore equilibrio, di agire con meno rabbia, odio e rancore. Un altro obiettivo potrebbe essere quello di sviluppare amore, soddisfazione, e interagire con gli altri in modo costruttivo. Una volta che abbiamo chiaro questo obiettivo, dobbiamo adattarci alla nostra quotidianità, al mondo che ci circonda, con flessibilità e pazienza.

Certo, possiamo pianificare le nostre giornate, come facciamo di solito: “Oggi devo fare questo, domani quello”, ma ricordiamoci che le cose non andranno necessariamente come ce le aspettiamo. Dobbiamo adattarci man mano che la realtà si manifesta. Non abbiamo il controllo completo su ciò che accadrà, ma ciò che possiamo controllare è come reagiremo a ciò che accadrà e come interagiremo con la realtà.

Una delle cose che personalmente mi dà molta gioia è avere la consapevolezza di poter osservare me stesso, di poter riflettere e vedere quando le mie reazioni sono influenzate da desideri illusori. Questa consapevolezza è il primo passo per ridirezionare il nostro comportamento e le nostre aspettative. Non possiamo cambiare tutto da un giorno all’altro, ma con dolcezza verso noi stessi e un po’ di affetto, possiamo iniziare a notare e accettare quando ci attacchiamo a desideri irrealistici. Se, ad esempio, continuo a immaginare che ogni mercoledì debba andare a Milano in elicottero, ogni mercoledì rimarrò deluso. A un certo punto devo riconoscere che questa è solo un’illusione, un attaccamento a un’immagine idealizzata che non si può sostenere. Non è colpa di nessuno, è solo una proiezione mentale che mi causa sofferenza. E se comincio a dire che è colpa del centro, che dovrebbe comprarmi un elicottero, o se accuso il presidente dell’associazione di non averci pensato, sto creando un film che non ha basi reali.

È incredibile come, più andiamo avanti, più cerchiamo di giustificare e dare una sorta di logica a questa illusione. A volte creiamo una vera e propria “storia” intorno a un desiderio non realistico, arrivando a discutere con gli altri e creando conflitti. Così, in un batter d’occhio, ci ritroviamo a sognare di come potrebbe essere, a fare calcoli su quanto tempo ci vorrebbe per arrivare in elicottero, dove atterrare, quale percorso prendere, ma tutto su una base completamente illusoria.

Sognare va bene, ma essere attaccati a una realtà idealizzata che non ha fondamenta concrete non fa altro che generare sofferenza e conflitto. Un altro esempio di questa dinamica riguarda le persone e come ci aspettiamo che gli altri siano o agiscano. Possiamo cercare di aiutare qualcuno a sviluppare certi aspetti o a comprendere qualcosa, ma se ci aggrappiamo all’idea che l’altro debba essere in un certo modo, rischiamo di rimanere delusi. Ogni persona ha il proprio percorso, il proprio processo, e noi possiamo vedere solo una piccola parte di tutto ciò.

Per concludere, vi invito a fare una riflessione profonda. Osservate le vostre immagini idealizzate su cui siete aggrappati. Riconoscete come, a lungo andare, queste possano generare sofferenza per voi stessi. Quando riconosciamo che un’illusione è solo un’illusione, cambia il nostro livello di attaccamento verso di essa.

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NOTA: Il contenuto di questo articolo è una trascrizione e rielaborazione in forma scritta degli insegnamenti orali trasmessi da Lama Michel Rinpoche nel contesto di incontri pubblici e momenti di condivisione resi accessibili al pubblico attraverso registrazioni video pubblicate online e liberamente consultabili. L’obiettivo di questo lavoro di trascrizione non è quello di riportare parola per parola ciò che è stato detto, ma di trasmettere nel modo più fedele possibile il senso, la profondità e lo spirito della trasmissione orale adattandola a una forma più adatta alla lettura. Una sorta di ponte tra la parola parlata e la parola scritta, tra l’esperienza diretta dell’ascolto e la riflessione intima della lettura e dove ogni parola riportata nasce dal desiderio di rendere accessibile a tutti ciò che è stato condiviso in forma viva e orale. Per garantire trasparenza e fedeltà al contenuto originale, di seguito viene riportato il link al video completo, così che chi lo desidera possa ascoltare direttamente la fonte da cui è stato tratto.

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