Parliamo dell’essere accettati dagli altri, una necessità che ci accompagna per tutta la vita, dalla nascita alla morte. Già nel grembo materno, il feto percepisce – non razionalizza, perché il cervello non è ancora sviluppato – ma sente, a livello istintivo, se è accettato oppure no. E può percepire anche l’ansia della madre, che non necessariamente implica un rifiuto, ma viene comunque avvertita dal bambino e può già metterlo in uno stato di disagio.
Questa esperienza precoce incide profondamente: molti neonati hanno coliche, disturbi intestinali o piangono senza motivo apparente. E in certi casi, tutto ciò può derivare da questa mancata accettazione o accoglienza emotiva, anche se inconsapevole.
Tutta la nostra capacità di sentirci accettati nel mondo ha origine lì: nella relazione con la madre. Se la madre mi accoglie, allora il mondo mi accoglie. Se non mi accoglie, il mondo intero rischia di sembrarmi ostile. Non voglio essere fraintesa: molti genitori credono di accettare i propri figli, ma in realtà li accettano a condizione. Pochissimi sono davvero capaci di accogliere profondamente un figlio per quello che è, senza proiezioni. Perché? Perché a loro volta, non sono stati accettati. È una catena. Una catena che si spezza solo quando uno dei discendenti decide di lavorare su di sé.
L’idea di essere accettati – o rifiutati – si manifesta ovunque: a scuola, nel lavoro, nelle relazioni. Alcuni bambini si isolano, non chiedono di entrare nei gruppi, perché non credono di poter essere accettati. Non è colpa loro, né dei compagni. È un pattern interiore.
La paura di non essere accettati si ripresenta anche nei confronti di figure d’autorità: insegnanti, capi, terapeuti. Negli esami scolastici, per esempio, non temiamo tanto il brutto voto quanto il giudizio della persona che ci valuta. E questo ci riporta, ancora una volta, alla madre o al padre non accoglienti.
Poi arriva l’amore. Se non siamo stati accettati davvero da piccoli, difficilmente ci sentiremo accettati dal partner. Peggio: sceglieremo proprio partner che non ci accettano, perché quella è la “normalità” emotiva che conosciamo. Anche se dentro di noi sappiamo che non va bene, restiamo lì, convinti che un altro non lo troveremo.
E non è esagerato il dolore che proviamo nelle pene d’amore. È il dolore del rifiuto originario. Non cerchiamo un partner, cerchiamo una madre. O una madre che faccia anche da padre. O un padre che accoglie come una madre.
L’accettazione è il diritto di esistere
Sentirsi accolti è il diritto di esistere. Il diritto di stare nel mondo, di occupare uno spazio. Quando questo viene meno, reagiamo in tanti modi.
C’è chi si ritira: non partecipa ai gruppi, si isola, magari si rifugia nella lettura, nello studio o nei videogiochi. Occhio a giudicare i ragazzi che stanno ore davanti ai giochi: non stanno scappando dalla realtà, ma cercando un luogo dove essere accettati.
Nel caso degli adulti, questa dinamica si può trasformare in gioco d’azzardo, dipendenze, alcolismo. E qui non bisogna giudicare. Chi soffre così tanto da fuggire in queste forme di estraniazione, ha bisogno non di moralismo, ma di comprensione. Non basta spiegargli “fa male”: bisogna prima spiegargli perché soffre così tanto da doverlo fare.
Auto-svalutazione e senso di colpa
Quando non siamo stati accettati da piccoli, non possiamo dare la colpa ai genitori. Perché da bambini abbiamo bisogno di credere che i genitori abbiano ragione. Quindi se non ci accettano, il problema siamo noi.
E qui nascono due meccanismi opposti:
“Sono io che non valgo” – quindi mi colpevolizzo e mi sento indegno.
“È il mondo che è tutto cattivo” – mi isolo, mi erigo a giudice, ma sotto sotto sto solo proteggendomi.
In entrambi i casi, la radice è lo stesso dolore.
Cambiare la mente, non l’anima
Lavorare su tutto questo non significa cambiare l’anima. L’anima va bene così com’è. È la mente condizionata che ci crea problemi: quella voce interiore che ci dice che non valiamo, che saremo rifiutati, che nessuno ci amerà mai davvero.
Non è la mente razionale a dircelo. È la mente ferita, che parla con la voce del genitore che non ci ha visto, non ci ha accolto, o ci ha giudicato. Ma si può cambiare. E cambiare questa voce è una grande possibilità.
L’accettazione: il fondamento dell’esistenza
Essere accettati è la base della vita. Spesso parliamo dei bambini che stanno male, che non hanno da mangiare, e ci commuoviamo — e per carità, è assolutamente giusto. Ma non è così diverso crescere con un dolore interiore. Certo, si può morire di fame o di malattia, ma chi soffre dentro, chi ha l’inferno dentro, spesso ha ancora più difficoltà ad “andarsene”, a liberarsi. Guardate che l’umanità sta molto meno bene di quanto si pensi.
Quando le persone iniziano un percorso evolutivo, a un certo punto dicono: “Ho scoperto che l’umanità soffre”. E meno male — è un segno di saggezza. L’umanità soffre, anche quella che sembra non soffrire. Chi sembra non soffrire spesso è semplicemente anestetizzato. Perché nel momento in cui ti accorgi di quanta sofferenza c’è intorno, non puoi più essere così spensierato. Certo, ti ritagli i tuoi spazi di benessere, ti godi le piccole cose, ma ogni volta che il pensiero va a quella sofferenza, si prova tristezza, tenerezza, malinconia.
E anche se una persona che sta meglio può aiutare un pochino la sua cerchia, non può fare molto di più. Anche le mie parole, per quanto sincere, possono fare ben poco — meglio di niente, certo, ma poco.
L’accettazione è tutto.
Noi dovremmo incontrare le persone dicendo: “Sei disposto ad accettarmi? O mi giudichi ancor prima di conoscermi?”. Spesso accade questo. Ma chi giudica, lo fa perché non è stato accettato.
Evolversi, cambiare, è anche una forma d’intelligenza — ma attenzione: io parlo di intelligenza emotiva, non razionale. L’intelligenza razionale può esserci o non esserci, è un altro ambito. Ho visto persone che non capivano nulla sul piano emozionale, ma risolvevano in un attimo il cubo di Rubik. Una mente scientifica, brillante — apprezzabilissima — ma non collegata a una conoscenza emotiva.
L’intelligenza emotiva, invece, è la base della vita, dei rapporti umani. È quella che ci permette di creare legami veri.
Anche nei colloqui di lavoro l’accettazione gioca un ruolo. Esistono persino i coach che insegnano come sembrare disinvolti, realizzati, senza paura. Ma quella è una recita. Può servire per un colloquio, non per tutta la vita. Ho conosciuto persone che andavano a cercare lavoro con estrema disinvoltura. Non perché erano state particolarmente accettate, ma perché accettavano se stesse. Ecco il segreto: accettarsi.
Se gli altri — per esempio i nostri genitori — non ci hanno accettati, l’unica possibilità che abbiamo è quella di accettarci da soli. Ma non è facile, perché dentro di noi ci sono degli “dei interiori” che stabiliscono se valiamo o no. Se i nostri genitori non ci hanno accettati, è come se quegli dei ci avessero detto: “Non vai bene”.
E allora bisogna smontare gli dei.
Viviamo in una religione monoteista, spesso non accettante. In genere, le religioni monoteiste non sono accoglienti. Abbiamo un Dio che ci accetta se ci sacrifichiamo. Le chiese sono piene di martiri — perché a Dio, dicono, piace che moriamo per Lui, magari anche soffrendo. È così che gli dimostriamo quanto lo amiamo. Abbiamo privilegiato la religione del padre rispetto a quella della madre. Ma il padre è meno accogliente. Chi si occupa dei figli, anche tra gli animali? La madre. Il padre lo fa raramente. La madre ha una sensibilità che il padre non ha — forse perché ha portato il figlio dentro di sé, forse perché ha un’anima più in evidenza. Le donne, se sono brave madri, mettono i figli prima di loro stesse. Una madre rinuncia ad uscire la sera per stare con il suo bambino. Il padre, spesso, no. In caso di separazione, è più facile sentire un padre dire “lo do ai miei genitori” che una madre fare lo stesso.
Accettazione e relazioni
La non accettazione si riflette anche nel rapporto con gli altri. Quando cerchiamo lavoro, la percezione che abbiamo di noi stessi — basata sull’essere stati accettati o meno — determina come ci presentiamo. Se penso di avere buone possibilità, mi presento con disinvoltura, alla pari. Non con arroganza, ma con autenticità. La disinvoltura è rara. È un dono di chi è stato accettato, o ha fatto un profondo lavoro su di sé. Chi si accetta non ha bisogno di fare scena, di mascherarsi. Si mostra per com’è: con le sue fragilità, i dubbi, le incertezze. E non ne soffre, perché le considera naturali per un essere umano.
Anche in amore vale lo stesso. Pensiamo che qualcuno debba accettarci — ma se non siamo stati accettati, crediamo che nessuno potrà farlo davvero. Allora ci aggrappiamo al primo che ci dà attenzione, anche se non è la persona giusta. Non osiamo scegliere, distinguere. Chi ci accetta poco finisce per diventare la nostra scelta.
Essere genitori e accettare i bambini
Se vogliamo essere bravi genitori, dobbiamo prima accettare il nostro bambino interiore. Altrimenti, replichiamo con i figli le stesse rigidità che abbiamo subito. Se siamo cresciuti pieni di regole, daremo al bambino lo stesso trattamento, lo riempiremo di divieti. Non tollereremo la sua vivacità, come non è stata tollerata la nostra. Oppure, al contrario, alcuni genitori lasciano fare tutto ai figli. Ma anche questo non è sempre accettazione. Dobbiamo distinguere tra il soddisfare i desideri del bambino e l’educarlo con dolcezza. I bambini hanno bisogno di limiti reali, ma dati con affetto: “Non puoi attraversare da solo, è pericoloso”; “Non mangiare tutto il gelato, ti fa male”. Non con rimproveri, ma con pazienza. I bambini non hanno bisogno di colpa — già il mondo farà il suo lavoro in quel senso. Dobbiamo dare loro piccole responsabilità: la cameretta, i giocattoli, i compiti. Se non ce la fanno, non è pigrizia. È disagio. Chi sta bene, ha voglia di fare. Un bambino che rifiuta anche un piccolo compito, sta male. E i genitori devono chiedersi il perché. I figli indolenti sono figli che soffrono.
Giudizio e incomprensione
L’umanità non accetta, perché non è stata accettata. E invece di comprendere, giudica. Ma il giudizio uccide la comprensione. Etichettiamo le persone e le chiudiamo in un cassetto, smettiamo di pensare.
Invece, se non giudico, resto aperto. Mi chiedo: “Perché si comporta così?”. Non conosco l’altro, e dovrei dirlo: non ti conosco. Se voglio capirti, devo ascoltarti. Non è detto che debba capire tutti, ma se voglio esprimere un’opinione, devo osservare, ascoltare.
Il giudizio viene dalla testa, non dal cuore. È fasullo. La cosa più dolorosa della vita è non essere stati accettati.
Poi certo, ci sono vari livelli di dolore: chi viene picchiato, chi maltrattato. Ma l’umanità rifiuta di vedere questa sofferenza — perché vederla fa male. Però, attenzione: fa anche bene. Capire fa male, ma anche bene. È una scoperta.
Il bambino è tenerissimo nel suo bisogno di accettazione. Quando dice: “Mi hanno detto che sono bella” o “bello”, spera che ci sia qualcuno al mondo che possa trovarlo piacevole. Che non tutti la pensano come mamma o papà.
E nelle relazioni di coppia riviviamo tutto.
Nel partner riviviamo in pieno l’accettazione (o non accettazione) dei genitori. E quando veniamo lasciati, il dolore è enorme, perché riemerge il genitore che ci ha negato. Per questo soffriamo così tanto: ci viene negato il diritto di esistere. Perché per noi, essere accettati è il diritto di esistere.
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