E cosa ci permette di avere pensieri nuovi, di vedere le cose da un’altra prospettiva, di generare nuove interpretazioni? Principalmente, l’incontro con qualcosa che rompe questi schemi abituali. Perché noi, fondamentalmente, siamo esseri fatti di abitudini. Non si tratta solo di ripetere pensieri in senso concettuale, ma di ripetere veri e propri dialoghi interni. Siamo, in un certo senso, noiosi. O almeno, io mi immagino che sia così per la maggior parte di noi – perché se comprendi te stesso in profondità, puoi intuire anche molto degli altri.
Non so quanti di voi abbiano un dialogo interiore completamente nuovo ogni giorno. Ma credo che, più o meno, tutti giriamo intorno alle stesse tematiche, agli stessi pensieri, e reagiamo in maniera simile alle situazioni. Siamo creature d’abitudine.
C’è una fase della nostra vita che è cruciale per la formazione di questi schemi: l’infanzia. In quel periodo, viviamo il mondo con occhi nuovi. Vediamo qualcosa per la prima volta e, anche se non lo chiediamo esplicitamente, dentro di noi nasce la domanda: “Che cos’è questo?” Cerchiamo di capirlo, imitiamo chi ci sta intorno, e così costruiamo la nostra visione del mondo.
La prima volta che facciamo esperienza di qualcosa, lo conosciamo. Poi, le volte successive, non lo conosciamo più: lo riconosciamo. E nel riconoscerlo, cosa facciamo? Prendiamo un’immagine mentale già esistente, un ricordo, e lo applichiamo alla nuova esperienza. Più passa il tempo, meno conosciamo e più riconosciamo.
Questo meccanismo ha due elementi: l’oggetto esterno – ciò che vediamo, sentiamo, viviamo – e il soggetto interno, cioè noi stessi: il nostro stato emotivo, le nostre conoscenze, il nostro punto di vista in quel momento. Ecco perché, ad esempio, possiamo vedere un film una volta e divertirci tantissimo, poi rivederlo anni dopo e chiederci come ci fosse potuto piacere. Non è cambiato il film. Non è che qualcuno abbia modificato la sceneggiatura. Siamo cambiati noi. L’esperienza è diversa perché l’osservatore è cambiato.
La vita è così. Ma noi spesso diciamo: “Questa cosa la conosco già.” E rimaniamo aggrappati a quell’immagine del passato, anche quando la situazione è cambiata, anche quando noi siamo cambiati. E facciamo lo stesso con noi stessi: diciamo “Io sono fatto così”, ma ci riferiamo a un’immagine del passato, non a ciò che siamo adesso.
Ecco perché, secondo me, una delle qualità più belle che possiamo coltivare è la curiosità, unita all’umiltà. L’umiltà di non presumere di sapere già tutto, ma di aprirci, di avere la gioia di rivedere le cose con occhi nuovi.
Quindi, da un lato, abbiamo questa tendenza a riconoscere invece che conoscere, a ripetere gli stessi pensieri, a vivere secondo le stesse abitudini. Dall’altro, c’è un tema molto profondo: come si fa a trasmettere conoscenza ed esperienza da una persona all’altra?
Quando vogliamo insegnare qualcosa a qualcuno, quali strumenti abbiamo davvero? In fondo, possiamo comunicare solo utilizzando ciò che l’altra persona già conosce. Partiamo dalla sua esperienza, dalla sua comprensione. La nostra esperienza può essere condivisa, ma solo attraverso i riferimenti che l’altro ha già dentro di sé. È importante riconoscere che non possiamo trasferire direttamente la nostra esperienza: possiamo solo creare i presupposti perché l’altro, a partire da ciò che conosce, possa aprirsi a una nuova comprensione.
Ed è strano pensare a questo: quando qualcuno ci insegna qualcosa, in realtà non ci sta trasmettendo direttamente qualcosa di nuovo, ma ci sta aiutando a usare ciò che già sappiamo, a riorganizzarlo, a metterlo insieme in modi diversi per aprirci alla comprensione di qualcosa che prima non riuscivamo a vedere. E quando questo accade… è una specie di magia.
È come se avvenisse un piccolo miracolo: qualcuno non ci mostra semplicemente qualcosa, ma ci aiuta a vedere, ci guida verso una comprensione che prima ci era nascosta. E questo è fondamentale, perché noi ci trasformiamo costantemente, in base alle interazioni che viviamo nella vita.
Ricordo, per esempio, quando sono andato a vivere in India a 12 anni. C’era stata la cerimonia di riconoscimento come tulku, e in quell’occasione, durante un momento formale, eravamo con Lama Gangchen Rinpoche, con i miei genitori. Rinpoche stava spiegando a loro perché era importante per me, anche se era stata una mia scelta, fare quegli anni di studio in India fin da piccolo. E disse: “Vedi, Lama, la mente di un bambino è come un cristallo puro. Se lo metti in mezzo alla sporcizia, cosa riflette? Sporcizia. Se lo metti in mezzo alla luce, cosa riflette? Luce.”
Quello che Rinpoche stava dicendo è che, se a una mente pura e aperta dai un’educazione piena di input non sani, alla fine rifletterà quello. Ma se le dai stimoli positivi, costruttivi, profondi, anche il riflesso sarà tale. E questo ci dice una cosa molto chiara: noi siamo il risultato del contesto in cui viviamo, delle persone con cui interagiamo, delle esperienze che facciamo, delle parole che sentiamo, delle energie che assorbiamo.
Tutto questo ci trasforma, passo dopo passo. Certo, lo fa partendo da quello che già conosciamo. Ed è proprio qui che entra in gioco una delle nostre più grandi libertà: la possibilità di scegliere consapevolmente le interazioni che viviamo. Perché ogni interazione, volenti o nolenti, ci cambia.
Per questo diventa fondamentale scegliere un contesto sano, relazioni sane, esperienze edificanti. Mi viene in mente un detto: “Se sei sempre il più intelligente nella stanza, forse sei nella stanza sbagliata.” In altre parole, è importante cercare ambienti dove possiamo imparare qualcosa, dove le persone con cui interagiamo ci stimolino, ci aiutino a evolvere. Questo non vuol dire che chi sa meno di noi non abbia nulla da offrirci, assolutamente no. Ma è importante riconoscere il valore di quelle interazioni che ci fanno crescere, che ci muovono dentro nella direzione che vogliamo coltivare.
E questo riguarda tutti i livelli: fisico, mentale, emotivo. Ricordo una scena che mi ha fatto sorridere e riflettere. Ero in Brasile, a casa di mio padre. Accendo la televisione e per caso mi imbatto in una telenovela piuttosto particolare. A differenza di quelle classiche, che mostrano la vita dei super ricchi, questa era ambientata in un contesto popolare, tra la gente semplice.
In una scena c’era questa donna sposata, che insieme al marito finalmente riesce a comprare un bel divano. Erano contenti. Poi però il marito perde il lavoro, e giorno dopo giorno resta sempre seduto su quel divano a guardare la televisione. Lei esce per lavorare al mattino, torna la sera e lo trova sempre lì, fermo. Alla fine si stanca, inizia una relazione con un altro uomo, esce di notte, torna prima dell’alba… e il marito è sempre lì, sul divano. Finché un giorno torna a casa e lui è morto – sempre sul divano.
Passa un po’ di tempo, trova un nuovo compagno, felice di iniziare una nuova vita. L’uomo si trasferisce da lei… e dopo qualche giorno, dov’è? Sul divano. Anche lui, sempre lì, apatico, distante. Allora lei prende il divano e lo butta. E dice una frase che mi ha fatto ridere e pensare: “Povero il mio ex marito… alla fine la colpa non era sua. Era del divano!”
È una scena leggera, ma molto profonda. Mi ha ricordato uno studio interessante, mostrato in un documentario intitolato “The Truth About”, che esplora il comportamento umano. In questo studio si dimostra come il nostro comportamento sia profondamente influenzato dal contesto, molto più di quanto pensiamo.
Ad esempio, in uno degli esperimenti si cercava di capire chi avesse maggiore tendenza a barare. Il test è stato ripetuto in moltissimi paesi: Svezia, Pakistan, India, Argentina, Brasile, Stati Uniti, diversi paesi europei. E la domanda era: chi imbroglia di più? La risposta sorprendente è che, messe le persone nelle stesse condizioni, il comportamento era praticamente identico in tutto il mondo.
Questo dimostra quanto sia potente l’influenza del contesto, dell’ambiente che ci circonda, delle interazioni che viviamo quotidianamente.
Ed è per questo che dobbiamo essere attenti, consapevoli e responsabili nel scegliere le nostre interazioni, nel creare ambienti sani intorno a noi. Perché anche se non ce ne rendiamo conto subito, ci trasformano. Lentamente, costantemente, profondamente.
All’interno di questa scelta di interazioni sane, esiste un tipo di interazione che è estremamente importante — dalla nascita fino alla morte. Ed è qualcosa che, in qualche modo, sappiamo essere fondamentale. Lo cerchiamo costantemente, a volte con successo, altre volte meno: sono le interazioni che ci fanno sentire amati, che generano in noi un senso di appartenenza, di affetto, di sicurezza interiore.
Pensiamo a quanto sia importante per un neonato avere la madre presente, avere il padre vicino. Quanto conta, nell’infanzia, ricevere un affetto coerente, stabile, sincero. È qualcosa di fondamentale. Quante storie esistono di persone che, in un certo periodo della loro vita, non hanno ricevuto quell’amore? E poi, a volte, passano il resto della vita cercando di riempire quel vuoto.
E dopo l’infanzia, crescendo, continuiamo a cercare connessioni che ci facciano riconnettere a quel sentimento originario. La cosa interessante, però, è che quel sentimento non dipende realmente dall’altro — dipende da noi. Anche se spesso crediamo che sia l’altro a renderlo possibile.
Pensiamo, per esempio, all’amore: quante volte ci diciamo “ti posso amare solo se…” — solo se ti comporti in un certo modo, solo se non fai questo, se mi dai quell’altro… Mettiamo condizioni, paletti. È come se credessimo che il sentimento d’amore che proviamo dipenda dalla persona di fronte a noi, quasi come se fosse “colpa” sua se ci sentiamo in un certo modo.
Ma non è così.
La verità è che quella persona diventa una condizione attraverso la quale noi entriamo in contatto con una parte bella, profonda, nostra. L’altro, in qualche modo, ci aiuta a riconnetterci con ciò che già abbiamo dentro.
Qualche giorno fa sentivo un’intervista con un neuroscienziato che parlava proprio del potere dell’affetto. Diceva una cosa straordinaria: quando stiamo mangiando, qualunque cosa sia, se nel momento del pasto c’è uno scambio affettivo, se chi ci prepara il piatto o chi condivide con noi quel momento lo fa con amore, con connessione… aumenta il livello di ossitocina nel nostro corpo.
E questo cambia tutto: cambia il palato, cambia letteralmente il gusto. Non è una frase romantica dire “il cibo fatto con amore è più buono”: è scientificamente vero. A livello fisico, lo percepiamo diversamente, con più piacere, con più profondità. Questo succede in ogni situazione sensoriale in cui viviamo una connessione autentica.
Per questo è così importante coltivare sentimenti di amore, affetto, connessione, non solo per motivi emotivi o psicologici, ma anche per la salute fisica. Ci sono ricerche che lo dimostrano chiaramente.
C’è uno studio, di cui ho parlato anche in passato, condotto da una dottoressa che ha vinto il Premio Nobel. Aveva scoperto che esiste una parte nel nostro DNA — non ricordo i termini esatti, mi sembra si chiamasse telomero — che ha una funzione importante: più è lungo, più è probabile che una persona viva a lungo. Quando è corto, è un chiaro indicatore che la persona avrà una vita più breve o una salute più fragile.
Questa ricercatrice prese come soggetto un gruppo di donne, madri sole, con figli con gravi disabilità fisiche e mentali. Erano donne che non avevano alcun tipo di supporto, completamente da sole, da anni, in una situazione di estrema difficoltà e sofferenza. Molte di loro erano anche depresse.
Iniziò a studiarle, a fare analisi sul loro stato di salute profondo, e vide che i loro telomeri erano ridotti al minimo, indicando una condizione gravissima. Ma poi fece una cosa semplice: le mise in contatto tra di loro, le fece incontrare, parlare, condividere le esperienze. Iniziarono a creare un senso di appartenenza, a sostenersi a vicenda, a costruire legami.
E successe qualcosa di incredibile.
Non solo la loro vita emotiva e quotidiana cambiò radicalmente, ma dopo soli sei mesi, rifacendo gli stessi esami, i telomeri erano tornati a livelli normali, in alcuni casi addirittura migliori della media. Era come se, attraverso l’affetto, la connessione, si fossero rigenerate.
Questo dimostra che essere visti, amare ed essere amati, sentirsi parte di qualcosa, ha un potere incredibile. Non solo ci fa stare bene emotivamente, ma trasforma il nostro corpo, la nostra salute, la nostra vita intera.
Perciò, quando diciamo “egoisticamente parlando è meglio essere altruisti”, è vero anche da un punto di vista scientifico. Perché più siamo chiusi nell’“io”, nel “mio”, più diventiamo miserevoli. Più siamo lì a preoccuparci solo di ciò che vogliamo, di come lo vogliamo, quando lo vogliamo, per il nostro bisogno, la nostra necessità, la nostra visione… più diventiamo noiosi.
E più restiamo in questo stato, più questo diventa il nostro centro. Come abbiamo detto all’inizio: ci ripetiamo. Siamo noiosi, monotoni, sempre sulla stessa frequenza. Diventa un’abitudine. A un certo punto, non riusciamo più a vedere nulla al di fuori di quel filtro. Per questo dobbiamo permetterci di andare un po’ oltre.
E la cosa bella è che, per entrare in contatto con la parte più bella di noi stessi, c’è un’indicazione chiara: è il corpo stesso che ce lo dice. Quando stiamo facendo la cosa giusta, spesso il corpo sta bene. Quando invece il corpo si ammala, magari stiamo sbagliando qualcosa.
E allora, quali sono i sentimenti ai quali il corpo reagisce bene? Ossessione, aautogratificazione, distanza, individualismo, egoismo oppure affetto, amore, altruismo, connessione, appartenenza?
È chiaro: il corpo reagisce molto, molto meglio a sentimenti come amore, connessione, altruismo. Sono quelli che risuonano davvero dentro di noi. Sono quelli che parlano più forte.
Ma — e qui torniamo al punto — questo dipende da noi.
E come dicevo prima, la parte interessante è che per entrare in contatto con questa parte più bella di noi, abbiamo bisogno dell’altro. L’altro è lo specchio, è la porta, è la via. Senza l’altro non possiamo accedervi. Ma per fare questo, dobbiamo permetterci di vedere veramente l’altro. Ed è un esercizio, non è ovvio. Essere lì davanti a un’altra persona, un altro essere — che sia un essere umano, un animale, un insetto, chiunque — e permettersi di vedere davvero quell’essere, al di là della funzione che ha per me, al di là del suo ruolo nella mia vita.
E attenzione, a non cadere nella trappola dell’ego spirituale. Quella trappola che ci fa dire: “Io voglio amare perché voglio essere un bravo buddista. Perché la bodhicitta, perché tutti gli esseri…”. Ma in fondo, poco mi importa dell’altro: mi importa di me, di essere il bravo bodhisattva della situazione.
Non so se è chiaro questo… ma dobbiamo stare attenti. Perché è una trappola sottile. Una delle ragioni per cui questo percorso va fatto in segretezza. Nessuno deve sapere. Non devo far capire agli altri che sono diventato altruista.
Un mio amico una volta aveva una maglietta con scritto: “Today is my Bodhisattva* Day” — “Oggi è il mio giorno da bodhisattva” (ndr. usando termini semplici, un bodhisattva è una persona saggia e compassionevole che si prende cura di tutti gli altri). Ora, nel suo caso era un promemoria per sé, non per gli altri. Ma magari non serve nemmeno scriverlo. Conta che lo viviamo dentro di noi.
Perché, alla fine, è l’altro che ci permette di entrare in contatto con la parte più bella che abbiamo, ma sta a noi permetterlo.
E non vuol dire andare a cercare situazioni strane o eccezionali. No. Gli insegnamenti dell’addestramento mentale (Lojong) lo dicono chiaramente: dobbiamo vivere questo processo nella nostra vita quotidiana. Con le persone più vicine a noi.
È lì — nella famiglia, negli amici, al lavoro, con le persone con cui conviviamo ogni giorno — è lì che dobbiamo imparare a vedere davvero l’altro. E lì dobbiamo allenarci nell’amore, nel rispetto, nella gratitudine, e così via.
Non in un contesto ideale, dove tutto è facile. Non in una visione astratta: “ho compassione per esseri lontani che non vedrò mai”… oppure: “amo chi è sempre gentile, simpatico, che fa tutto come voglio io” — magari il cane.
Va benissimo avere amore per il proprio cane, ma serve anche per il vicino, per la vicina, per gli amici, per i colleghi, per i familiari. Dobbiamo andare oltre.
E questo ci porta a un altro punto, che abbiamo già accennato: non possiamo diventare qualcosa di diverso se non partendo da quello che già siamo. Come dicevamo prima: per imparare qualcosa, usiamo gli strumenti che già abbiamo. La base di conoscenza è quella che c’è. E così, anche la base di trasformazione siamo noi stessi, così come siamo ora.
Vogliamo diventare esseri altruisti, ma oggi siamo ancora piuttosto egoisti, no?
Alla fine dei conti, quanta importanza diamo all’io e al mio? Tanta.
Allora, dobbiamo usare proprio questo egoismo per aiutarci a uscirne. E piano piano, capendo, sperimentando quanto ci fa bene aprire il nostro cuore, vedere l’altro, sentire dentro quel sentimento di affetto, di amore…
Quando io riesco a vedere quanto questo mi fa bene, allora piano piano mi permetto di generarlo sempre di più.
Finché, a un certo punto, diventa naturale. Diventa spontaneo.
In realtà oggi volevo parlare di un’altra cosa… però come succede spesso, nel fare un’introduzione mi perdo nell’introduzione, in qualche modo. Però vi accenno in due parole qual era l’argomento.
Perché noi possiamo trasformarci, ma abbiamo bisogno di interazioni. E dobbiamo scegliere il più possibile delle interazioni sane — come abbiamo detto prima: luoghi, persone, situazioni. Poi, lì dove abbiamo delle situazioni che non sono sane, dipende da come noi ci poniamo dinanzi a quella situazione. La posso vivere in un modo sano o in un modo malsano.
E questo è importante: non è la situazione oggettiva esterna che determina tutto. Quindi non mettiamoci in uno stato di vittimismo: “Ah, ma guarda dove vivo, guarda perché è successo questo, guarda perché è così…”.
Il modo in cui noi ci poniamo dinanzi alla situazione cambia la situazione stessa, la trasforma.
Anche lì ricordiamoci: il conoscere è fatto di due parti, lo sperimentare è fatto di due parti.
Allo stesso tempo, è molto importante creare vincoli umani il più sani possibile.
E cosa sono i vincoli umani sani? Sono quelli basati su sentimenti virtuosi, su relazioni in cui l’interazione con l’altro ci aiuta a crescere. E questo, nella vita, è veramente importante: avere delle persone con cui, nel relazionarci, ci aiutano a diventare migliori.
E questa è anche la funzione principale del Guru.
Quando, all’interno della visione del Buddhismo, si parla dell’importanza di affidarsi correttamente a una guida spirituale, una delle funzioni fondamentali è proprio questa: costruire un rapporto umano sano, profondo, trasformativo.
Permettersi di creare un rapporto, almeno uno — idealmente tanti — in parte anche idealizzato, ma basato su fiducia, amore, affetto.
Un rapporto dove io posso sentire che sono amato, che posso fidarmi, che posso affidarmi. E questo è fondamentale per noi. Avere dentro di noi quel sentimento che sono amato, che posso fidarmi, è qualcosa di essenziale per la nostra salute interiore.
Idealmente, dovremmo avere più persone con cui sviluppare questo tipo di relazione. Ma anche solo una, può cambiare tutto.
Ed è con questa persona — che può essere chiamata “guida spirituale”, Guru, o in altri modi — che si costruisce un rapporto dove io riconosco qualità che voglio sviluppare, che voglio incarnare. Un rapporto dove c’è rispetto, dove c’è gratitudine.
E questo è qualcosa di fondamentale per noi, non importa con chi sia.
Ora, quando si parla del rapporto con la guida spirituale… è un argomento che, sin dagli inizi, quando il Buddhismo è arrivato in Occidente, molti maestri hanno evitato di affrontare perché anche se negli insegnamenti tradizionali è uno dei temi fondamentali, in Occidente c’è un rischio enorme di malinteso. Il rischio è che, quando chi parla di questo tema è anche considerato guida spirituale, allora sembra che stia dicendo: “Ah, dovete seguire me!”. E questo può portare al fraintendimento totale. Anzi, può avere l’effetto opposto.
E io qui, lo dico chiaramente: non sto parlando di me. Quello che sto dicendo è che tutti noi abbiamo bisogno di relazioni fondate su amore e fiducia. Abbiamo bisogno di persone a cui aspiriamo, che siano esempio vivente, che ci facciano vedere: “Guarda, essere umani sani è possibile.” Perché quando abbiamo anche una sola relazione in cui sentiamo amore, riceviamo amore, c’è fiducia, c’è ispirazione… quella connessione ha un potere enorme su di noi.
Tempo fa, avevo spiegato la pratica del Guru Yoga in una chiave molto semplice, andando all’essenza. Non voglio entrarci adesso, ma vi racconto un episodio.
Una persona, dopo un po’, è venuta da me e mi ha detto: “Guarda Lama, grazie. Sto facendo quella pratica. Però io la faccio con la mia nonna”.
E io ho detto: “Bellissimo”.
E questa persona ha detto: “Per me, nella mia vita, la persona che rappresenta l’amore, in cui ho fiducia, e che è l’esempio di quello che voglio essere… è mia nonna. E quindi faccio la meditazione di Guru Yoga diventando inseparabile da lei.”
E io ho detto: “Va benissimo”.
Non è che dobbiamo pensare: “Eh, ma la nonna non è un Lama. Non può fare… prima deve diventare Ghesce, poi forse…”
Non stiamo parlando di titoli. Stiamo parlando del tipo di rapporto. Un rapporto fondato sull’amore, sulla fiducia, sull’aspirazione, sul rispetto. E questi rapporti dobbiamo saperli proteggere. Dobbiamo saper prendercene cura. Perciò, dobbiamo avere pazienza con noi stessi, perché siamo fatti di abitudini, sì, siamo noiosi, lo abbiamo detto…
Ma più interagiamo con persone diverse, con situazioni sane, con concetti sani, piano piano assorbiamo tutto questo e ci trasformiamo.
La difficoltà che abbiamo è che, probabilmente, non siamo più bambini. C’è qualcuno qui che è ancora bambino? No, mi sa di no.
E quindi, noi crediamo di sapere già. E invece, il processo è proprio quello di imparare a conoscere di nuovo, a partire da noi stessi.
Ci vuole tempo. Ci vuole tanta ripetizione. Ci vuole rivivere, risperimentare, per poi dire: “Ah, ecco! È così.” E cambiare la nostra percezione, cambiare il nostro modo di vivere il mondo, di vivere noi stessi. Per questo ci vuole: ripetizione, ripetizione, ripetizione, ripetizione, ripetizione.
Ma in tutto questo processo, è fondamentale la connessione umana che noi creiamo.
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