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Riconoscere le interferenze

Riconoscere le interferenze

Ogni tanto, osservando la nostra vita, il modo in cui viviamo le situazioni quotidiane, mi viene da pensare che forse dovremmo chiederci: che cos’è davvero la vita? Come la stiamo vivendo?
A volte, mi sembra che la vita sia come un flusso continuo, all’interno del quale si alternano momenti belli e momenti difficili, gioia e tristezza, piacere e sofferenza. Abbiamo spesso la tendenza a voler dare un’etichetta a come ci sentiamo. Diciamo: “Io sto così”, come se il nostro stato fosse fisso. Ma la realtà è che possiamo solo rispondere in riferimento al momento presente. Per esempio: “Adesso sto bene”, ma magari dieci minuti fa stavo male. Allora la domanda è: “Io come sto, davvero? Sto bene o sto male?”
Spesso cerchiamo di fare una sorta di bilancio, di mettere insieme tutte le esperienze per avere una visione più generale, ma non siamo molto bravi in questo. Tendenzialmente, prendiamo una parte – spesso l’ultima esperienza che abbiamo vissuto, o quella che ci ha colpito di più – e da lì generalizziamo tutto il resto. In realtà, siamo un flusso continuo, in movimento, avanti e indietro, immersi in una molteplicità di esperienze. La nostra mente, il nostro corpo… tutto è in cambiamento costante. Personalmente, non ho mai conosciuto qualcuno che fosse una “linea piatta”. Certo, ho incontrato persone con un’onda più regolare, più stabile: magari non passano da grandi euforie a profonde tristezze, ma comunque vivono una certa oscillazione emotiva. Nessuno è immune a questo.

Siamo tutti attraversati da emozioni, da sensazioni diverse.

Dentro questo flusso, un’altra cosa diventa chiara: noi non siamo affatto indifferenti al mondo che ci circonda. Non esistiamo come esseri separati, autonomi, indipendenti dal resto. Ciò che accade fuori – le parole di un’altra persona, la temperatura, il cibo che mangiamo, qualsiasi cosa accada intorno a noi – ci influenza. Non è che queste cose determinano chi siamo o cosa facciamo, ma contribuiscono a influenzarci. Potremmo usare una metafora: immaginiamo che il nostro stato presente sia il risultato di un’equazione.
In questa equazione, ci sono molti “numeri”: alcuni appartengono al nostro corpo, altri alle nostre emozioni, altri ancora ai nostri ricordi. Ci sono numeri che fanno parte delle nostre proiezioni e aspettative, dei batteri che ci sono nel nostro corpo, delle parole che riceviamo dagli altri, dell’ambiente in cui ci troviamo e un’ infinità di altri fattori. La cosa interessante è che ogni piccolo numero, anche il più insignificante, influenza il risultato finale di quell’equazione. Ogni dettaglio ha un peso, e tutto contribuisce a determinare come ci sentiamo, qui e ora.

Anche se, mi viene in mente una volta che sono andata dal mio Maestro che non era un un’astrologo ma un po si intendeva di astrologia e gli ho chiesto se per favore poteva vedere se il giorno che dovevo intraprendere un viaggio era un buon giorno per viaggiare e lui mi ha risposto che non l’avrebbe fatto. Allora ho insistito, chiedendogli almeno se mi poteva di dire perchè non voleva guardare e lui mi rispose “Hai già comprato il biglietto?” E io risposi “Sì”.
E lui: “E se per caso venisse fuori che è un brutto giorno per viaggiare, saresti disposto a cambiare il biglietto?”
Dissi no e allora lui mi disse: “È per questo che non voglio guardare. Perché se io guardassi e venisse fuori che è davvero un brutto giorno, l’influenza che ha la tua mente su di te sarebbe maggiore di quella che possono avere gli astri.”

Quindi nella somma di quell’equazione di cui abbiamo appena parlato, la parte in cui inizio a pensare “ah, è un brutto giorno, chissà che non succeda nulla, ecc…” ha un influenza maggiore di tutte le altre parte sommate. Quindi in questa equazione tutta la nostra parta interna ha un influenza ma non è la sola.

Questa cosa mi ha colpito molto, perché mi ha fatto capire che, nell’equilibrio di cui parlavamo prima, ci sono tante influenze che ci circondano. Una delle cose importanti, almeno per me — ma credo sia utile per tutti — è riuscire gradualmente ad avere più chiarezza rispetto alle influenze che riceviamo.

Noi tendiamo a fare una cosa precisa: quando proviamo una certa sensazione — che sia una gioia o un malessere — ci chiediamo subito “Perché sto così?” Ma quando ci poniamo questa domanda, generalmente non andiamo a guardare l’intera equazione con tutti i suoi elementi ma cerchiamo qualcosa che ci sembri coerente. Non necessariamente qualcosa che è coerente, ma qualcosa che ci appare coerente.

Cerchiamo un motivo che possa spiegare tutto. Cerchiamo il capro espiatorio. Vogliamo trovare un colpevole — in senso positivo o negativo. Per esempio: “Mi sento bene perché ho fatto quella cosa.” Oppure: “Mi sento male perché è successa quella cosa”. In quel momento, sentiamo di aver trovato la causa, il motivo, e sappiamo dove dirigere la nostra attenzione. Ma se osservassimo con più chiarezza, vedremmo che non è mai una sola ragione a determinare il nostro stato. Non è mai solo quella cosa che ci è successa, o solo quell’altra.

Uno degli aspetti fondamentali, secondo me, è iniziare a conoscere sempre meglio le influenze che ci attraversano. Capire meglio, per esempio: “Questa situazione, di solito, mi fa reagire in un certo modo. Mi genera questo tipo di emozione”. Più abbiamo chiarezza su questi fattori — su tutti i “numeri” di quell’equazione — più possiamo sapere dove agire.

Perché succede così: se a me piace il risultato (cioè come mi sento), allora devo stare attento a quali numeri, quali fattori stanno contribuendo, in modo da mantenerli. Se invece non mi piace quel risultato, allora devo capire su quali elementi posso lavorare per cambiarlo. E non basta agire solo su uno o due fattori. Serve una consapevolezza più ampia: del nostro corpo, di cosa accade quando mangiamo una cosa piuttosto che un’altra, dei nostri cicli ormonali, delle nostre reazioni emotive di fronte agli stimoli della giornata…

Perché il presente, in fondo, viene vissuto principalmente attraverso il filtro delle esperienze passate. Il presente non è separato da ciò che abbiamo vissuto. E più diventiamo consapevoli di questi vari aspetti, più succede che a un certo punto noi sentiamo sensazioni che non sappiamo bene a cosa attribuirle.

Credo, sia un’esperienza che tutti noi abbiamo vissuto: ci sono momenti in cui sentiamo dentro di noi una certa tensione, un certo malessere, senza riuscire davvero a capire da dove venga. Quando si tratta della gioia, va bene: non ci poniamo troppe domande, ci lasciamo semplicemente attraversare. Ma quando il sentimento è più pesante — come la tristezza, l’ansia, l’irrequietezza — allora iniziamo a cercare una spiegazione. Ci sono due fattori, in questi casi. Il primo è che, a volte, semplicemente non abbiamo chiarezza su quale sia il problema.
Ricordo, ad esempio, una volta, anni fa, in cui mi sentivo male. Ero triste, e quella tristezza non passava. Tornava, restava lì. Un giorno, andai dal mio Maestro e gli dissi: “Mi sento triste.”
Mi guardò e mi rispose con la sua solita gentilezza: “Ah sì? Qual è il problema? Dimmi, lo risolviamo subito”. Ma proprio mentre lui diceva così, dentro di me arrivò spontaneamente una risposta: “Non lo so”. Gli dissi la verità: “Guarda, qualunque cosa io immagini di cambiare — anche se ho una lunga lista di cose che vorrei diverse nella mia vita — se mi immagino ognuna di quelle cose sistemata, la sensazione di tristezza rimane. Non se ne va”.
E lui, con semplicità, mi disse: “Allora facciamo così: aspettiamo un pò e vediamo cosa succede. O prima o poi emergerà la vera causa, e potrai affrontarla, oppure, semplicemente, passerà”.

Quel momento per me è stato importante, perché mi ha mostrato che, anche se potenzialmente avessi potuto “risolvere tutto”, non sarebbe bastato. Perché quella tristezza aveva radici più profonde, non ancora visibili, non ancora comprensibili. E questa consapevolezza mi ha portato a fare qualcosa di diverso: accogliere quel sentimento. Sì, ero triste. Era reale. Non me lo stavo inventando. Ma non avevo un motivo specifico da attribuire a quella sensazione. Questo mi ha aiutato a non cercare un colpevole, a non iniziare a puntare il dito contro qualcuno o qualcosa, a non costruire mentalmente un’intera storia sul “perché” mi sentivo così. Semplicemente sentivo quella tristezza, la riconoscevo, la accoglievo. Ma cercavo di non farla diventare un processo mentale, di non attaccarla a un dialogo interno infinito del tipo: “Ma perché? Non dovrebbe essere così. Tutto va bene. E allora perché mi sento così? Cosa non va?” Tutto questo porta solo a un senso di colpa inutile: “Come posso sentirmi triste quando apparentemente tutto è a posto?” E da lì si entra in un labirinto mentale fatto di confusione, autosvalutazione, domande senza risposta.
Invece, in quel periodo, ho fatto un altro tipo di scelta: ho detto a me stesso “Ok, questo sentimento c’è. È reale. Ma non ho un oggetto preciso a cui attribuirlo. Allora lo accolgo. Non cerco di definirlo o etichettarlo troppo. Lo sento, e quando passa, lo lascio andare”.

Con il tempo, è successo proprio così. La tristezza ogni tanto tornava, ogni tanto spariva. Poi, dopo un periodo — mi trovavo in Tibet a studiare — mi accorsi un giorno che non c’era più. Solo allora, col senno di poi, mi resi conto che era legata a certe situazioni, a certi passaggi che stavo vivendo. Riuscii a comprenderne le origini, ma solo dopo.

Il pericolo, quando non comprendiamo l’origine di ciò che sentiamo, è quello di attribuire la causa a qualcosa che non è reale — e così facendo, generare nuovi conflitti. Oppure, restiamo intrappolati in un dialogo interno ossessivo e confuso, che ci logora. Quando invece diciamo: “Sì, c’è questo sentimento. Ma non ho nulla di concreto su cui proiettarlo perchè non ho chiarezza”, allora possiamo semplicemente lasciarlo esistere, senza aggiungere altro. Lo sentiamo, lo accogliamo, e lo lasciamo andare. Questo è già un passaggio importante.

Ma il tema primacipale di cui oggi voglio parlare, è un’altro. Quello che ho imparato — e che continuo a ricordarmi ogni volta che posso — è che non tutto ciò che sento è mio.
Certe volte percepiamo una tensione, un’ansia, un’irrequietezza, e subito — perché siamo abituati a farlo — iniziamo a cercare dentro di noi o attorno a noi la causa di quella sensazione. Ma la realtà è che, in molti casi, quella tensione non nasce da noi, bensì la stiamo semplicemente assorbendo, come una spugna, da ciò che ci circonda. Viviamo immersi in un campo di influenze: emotive, mentali, energetiche. Alcune di queste sono visibili e comprensibili, altre sono più sottili, non così facili da cogliere. Quello che accade, però, è che nel momento in cui sento una tensione, la mia mente comincia a chiedere: “Perché mi sento così?” — e allora comincio a cercare “colpevoli” esterni. Qualcosa da attribuire a quella sensazione.

Ma se potessimo fermarci, fare un respiro e dire: “Aspetta. Sento questa cosa, sì. Ma forse non è mia. Forse la sto solo attraversando” — e invece di agire subito in reazione, possiamo scegliere se accoglierla, lasciarla andare, oppure rispondere in modo diverso. Perché il punto non è evitare di sentire — non possiamo. Il punto è non identificarci con tutto quello che sentiamo. È come se fossimo un cielo: e i pensieri, le emozioni, le tensioni… sono nuvole. Alcune arrivano, restano un po’, poi passano. Ma noi non siamo le nuvole. Siamo il cielo. E come dicevo, ci sono momenti in cui, per esempio, entri in una stanza dove due persone hanno appena litigato — e magari sono in silenzio, non stanno più parlando — ma tu senti che c’è qualcosa di denso, di teso. È reale. Ma non è tuo. La differenza sta proprio lì: nel riconoscere ciò che sento, senza necessariamente appropriarmene.

E questa è una pratica continua. Perché a volte riusciamo a fare questo con chiarezza, con lucidità, altre volte no. A volte veniamo presi dentro l’onda emotiva di qualcun altro, reagiamo, ci difendiamo, ci infastidiamo, e solo dopo ci accorgiamo: “Ah… non era nemmeno mio”.

Quindi l’idea è proprio questa: posso sentire senza reagire, posso riconoscere senza identificarmi. Posso dire: “Sì, c’è una tensione nell’aria. Ma io come scelgo di muovermi dentro questo?”

È come in quell’insegnamento che citavo prima, quando Buddha risponde a quell’uomo arrabbiato: “Tu mi porti un regalo, ma io non lo accetto. Quindi resta tuo”. Vale lo stesso con la rabbia, con il nervosismo, con l’ansia. Non tutto ciò che arriva, dobbiamo prenderlo e farlo nostro. Però questo non è un processo mentale e basta. È anche energetico. C’è bisogno di una direzione consapevole dell’energia. Serve una certa presenza. Perché altrimenti, anche se mentalmente capiamo tutto, poi reagiamo comunque d’istinto.

Quindi per me — e questa è una cosa che continuo a imparare ogni giorno — sentire non significa identificarsi. Sentire non significa essere quella cosa. E avere questa distanza, questo piccolo spazio di libertà interiore, fa tutta la differenza. Perché nel momento in cui sento una tensione e non cerco subito di trovare la causa fuori o dentro di me, nel momento in cui smetto di costruire storie, accuse, spiegazioni mentali… in quel momento inizio a liberarmi. E allora la domanda non è più “Perché mi sento così?”, ma piuttosto: “Cosa posso fare ora per non alimentare questa tensione?” “Come voglio rispondere, non reagire, a ciò che sto vivendo?”

Ed è proprio questo che rende le interferenze segrete così subdole, perché non le riconosciamo facilmente come un ostacolo. Anzi, spesso le viviamo come qualcosa di buono, di utile, o addirittura di necessario — e per questo motivo non le mettiamo in discussione, non le vediamo come qualcosa che si frappone tra noi e il nostro vero intento. Questo vale in tantissimi contesti.

Per esempio: decido che voglio dedicare mezz’ora alla mia pratica spirituale, alla mia meditazione. Ma proprio in quel momento ricevo una telefonata da un’amica cara che ha bisogno di parlare. È una cosa buona ascoltarla, certo. È importante? Sì. Però… in quel momento, diventa un’interferenza segreta, perché mi allontana da ciò che avevo deciso di fare con chiarezza e priorità.

Quindi non è una questione morale — non è che quella telefonata sia “sbagliata” o “negativa”.
Il punto è: mi sta portando fuori strada rispetto al mio intento profondo? Se la risposta è sì, allora è un’interferenza. E questa visione è molto utile, perché ci aiuta a vedere che non tutto ciò che è positivo è necessariamente giusto in quel momento. A volte ci sono cose buone che vanno messe da parte, per qualcosa di più essenziale, più urgente per il nostro percorso.

E quando iniziamo a osservare le cose così, con questo tipo di chiarezza, ci rendiamo conto che nella nostra vita ci sono tante interferenze — alcune evidenti, altre molto sottili. Quelle esterne a volte possiamo gestirle, evitarle, o almeno limitarne l’impatto.
Quelle interne richiedono un lavoro continuo, di osservazione, di trasformazione.
E quelle segrete, quelle apparentemente positive ma che ci distraggono dal nostro obiettivo, sono quelle per cui serve più discernimento, più sincerità verso noi stessi.

Per questo, in molte pratiche — come dicevo all’inizio — si fanno delle puje, delle cerimonie specifiche per rimuovere le interferenze. Ma la cosa interessante è che non basta fare la puja e pensare che tutto è a posto. Perché una puja può creare le condizioni favorevoli, può aiutarci a sciogliere certi blocchi, certo — ma se poi noi stessi continuiamo a nutrire le interferenze, soprattutto quelle interne e segrete, allora il lavoro non è completo. È un po’ come fare una pulizia della casa e poi lasciare la finestra aperta durante una tempesta di sabbia. Serve attenzione continua, presenza, consapevolezza. E soprattutto: serve sapere dove vogliamo andare.
Perché, come dicevo prima, senza un obiettivo non esistono interferenze. Se non ho direzione, niente mi ostacola. Ma nel momento in cui scelgo una direzione, nel momento in cui do priorità a qualcosa — che sia la pace, la comprensione, la pratica, la crescita interiore — allora tutto ciò che mi devia, anche solo un po’, diventa interferenza.

E non è un problema. Il punto non è evitare che esistano. Il punto è riconoscerle per quello che sono — senza giudizio, senza colpa, ma con chiarezza — e poi decidere: “Voglio seguire questa deviazione, oppure torno al mio intento?”. Per me questa è una delle cose più importanti che ho imparato nel tempo: saper riconoscere le interferenze — esterne, interne, segrete — e riorientarmi ogni volta al mio centro. E farlo con gentilezza, ma con determinazione. Perché l’ostacolo non è l’interferenza in sé. L’ostacolo è dimenticare dove volevo andare.

E questa è la chiave: mantenere la direzione.

Perché nella vita quotidiana siamo costantemente messi davanti a bivi. Alcuni bivi sono evidenti: faccio questo o faccio quello. Altri sono sottili: mi perdo nel pensiero, o torno al respiro? Rispondo con rabbia, o resto in silenzio? Dedico tempo a ciò che nutre la mia mente e il mio cuore, o a ciò che mi distrae? Le interferenze, siano esse grandi o piccole, sono sempre scelte. Ma per poter scegliere in modo sano, serve una direzione chiara. E questo ci riporta al punto centrale: senza direzione non esiste interferenza. Se non hai uno scopo, tutto va bene. Ma nel momento in cui dichiari dentro di te un intento, che sia spirituale, relazionale, o pratico, allora inizia il vero cammino, e iniziano anche le vere sfide.

Quindi, il primo passo non è combattere le interferenze. Il primo passo è sapere dove vogliamo andare. E poi, imparare a riconoscere tutto ciò che ci allontana da lì. Un po’ come avere una bussola. Ogni volta che qualcosa ci porta a deviare, non è un dramma, è solo un’occasione per riportare l’attenzione alla direzione scelta.

Prendiamo un altro esempio: hai deciso di lavorare sulla tua pazienza. Magari la vita te la mette subito alla prova: una persona fa qualcosa che ti irrita. Lì, hai un’interferenza interna — l’irritazione, il giudizio, l’orgoglio — e magari anche un’interferenza esterna — l’azione dell’altro. Ma se ti ricordi che il tuo obiettivo è coltivare la pazienza, allora tutto cambia: quella persona non è più un ostacolo, è il tuo allenamento. L’interferenza si trasforma in parte del cammino. E questa è la cosa più bella: quando iniziamo a vedere le interferenze non solo come ostacoli da superare, ma come alleati inconsapevoli, che ci aiutano a rafforzare la nostra direzione. Questo però non succede da solo: succede solo se siamo presenti, se riconosciamo l’interferenza, e scegliamo consapevolmente di non darle il potere di deviarci.

Perciò, anche se noi — come dicevo — non siamo nelle condizioni di dover scegliere se scrivere cento volumi o realizzare l’illuminazione in questa vita, abbiamo le nostre interferenze, tutti i giorni. E il nostro compito è cominciare a vederle per ciò che sono, e a rispondere con consapevolezza e determinazione. Sapendo che ogni volta che reagiamo in automatico a un’interferenza, rafforziamo l’abitudine a seguire quella via, e quindi la prossima volta sarà ancora più facile che accada. Ma sapendo anche che vale anche il contrario: ogni volta che riconosciamo un’interferenza e scegliamo consapevolmente di non seguirla, creiamo un nuovo solco, un nuovo modo di stare nelle cose. E quella è libertà vera.

Alla fine, si tratta sempre di questo: Dove sto andando? E questa cosa mi ci porta o mi allontana?
Se mi allontana, è un’interferenza. Se mi ci porta, è un aiuto.

E se impariamo a vivere con questo tipo di chiarezza, tutto cambia.
Perché anche le situazioni più difficili — una litigata, un fallimento, una delusione — possono diventare strumenti per rafforzare la direzione, se non ci perdiamo in esse.

Quindi, in conclusione: non si tratta di non avere interferenze, ma di non dimenticare la strada.
E di tornare, ogni volta, con gentilezza ma con fermezza, a ciò che per noi conta davvero.

…e questi cicli viziosi diventano il nostro modo abituale di vivere, senza nemmeno rendercene conto.
Ogni volta che reagiamo in automatico a un’interferenza, rafforziamo l’abitudine a seguire quella via, e quindi la prossima volta sarà ancora più facile che accada. Ma — e qui c’è la buona notizia — vale anche il contrario: ogni volta che riconosciamo un’interferenza e scegliamo consapevolmente di non seguirla, creiamo un nuovo solco, un nuovo modo di stare nelle cose. E quella è libertà vera.

Per questo, l’essenza del lavoro interiore — spirituale, psicologico, relazionale — è coltivare consapevolezza e scelta. Non è che non sentiremo più le tensioni. Non è che tutto diventerà sempre sereno. Ma è che smettiamo di essere schiavi delle condizioni esterne o interne. Smettiamo di reagire automaticamente, e iniziamo ad agire in linea con i nostri valori, con ciò che per noi è importante.

E questo si può applicare davvero a tutto. Può essere il rapporto con il partner, con i figli, con il corpo, con la mente, con la pratica spirituale, con il tempo. Ogni ambito della vita è soggetto a interferenze. Nessuno escluso. La differenza la fa solo una cosa: la nostra capacità di riconoscere e scegliere.

E come dicevamo prima, per riconoscere un’interferenza serve sapere qual è la direzione. Serve avere chiaro dove sto andando, cosa voglio davvero. Perché se non so dove sto andando, tutto mi va bene e niente mi va bene.

Perciò ti lascio, per ora, con due domande semplici ma fondamentali: Qual è una direzione importante per me, in questo momento della vita? Quali sono le interferenze — interne o esterne — che più spesso mi fanno deviare? Quando cominci a rispondere con sincerità a queste due domande, hai già fatto un passo enorme verso la libertà interiore.

E da lì in poi, ogni giorno diventa pratica. Non perfetta, non facile, ma reale. E in questo cammino, anche le interferenze diventano parte del sentiero. E quindi, quello che davvero conta è dove vogliamo mettere la nostra energia. Quando ci accorgiamo che fuori c’è tensione, oscurità, confusione, litigi, ingiustizie, quello che possiamo fare non è cercare di cambiare tutto fuori, ma essere ancora più fermi dentro. Essere ancora più presenti, più consapevoli, più intenzionali in quello che scegliamo di coltivare dentro di noi e nei nostri gesti quotidiani.

Questo è il senso di “non seguire le interferenze” che non significa negarle o reprimerle ma riconoscere che ci sono senza però permettere che siano loro a decidere per noi. E questo vale anche per le dinamiche collettive. Più il mondo fuori si muove verso divisione, paura, competizione, più siamo chiamati a incarnare la cooperazione, la presenza, la pace. Più fuori c’è buio, più diventa sacro e necessario accendere una luce. E quella luce, come dicevamo, si accende con atti concreti, con un pensiero pulito, con una parola gentile, con una scelta intenzionale, con una preghiera, una meditazione, un silenzio che nutre. Con il fatto di non reagire quando potremmo, ma scegliere invece di vedere, respirare, trasformare. Questo non è “passivo”. È uno degli atti più potenti che possiamo fare.

Allora ricordiamoci: le interferenze ci sono e ci saranno sempre ma non sono “noi”. Possiamo imparare a riconoscerle, non seguirle, e scegliere dove vogliamo vivere. E in questo modo, la nostra strada si chiarisce, un passo alla volta.

Ogni volta che non seguiamo l’interferenza, diventiamo più liberi.
Ogni volta che scegliamo la luce, diventiamo più noi stessi.

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NOTA: Il contenuto di questo articolo è una trascrizione e rielaborazione in forma scritta degli insegnamenti orali trasmessi da Lama Michel Rinpoche accessibili al pubblico attraverso registrazioni video pubblicate online e liberamente consultabili. L’obiettivo di questo lavoro vuole essere una sorta di ponte tra la parola parlata e la parola scritta, tra l’esperienza diretta dell’ascolto e la riflessione intima della lettura e dove ogni parola riportata nasce dal desiderio di rendere accessibile a tutti ciò che è stato condiviso in forma viva e orale. Di seguito il link al video originale.

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